La società dei visibili | Note su L'uomo invisibile


Da più parti si è assai insistito sull’aspetto umoristico de L’uomo invisibile di H.G. Wells, mettendo quasi in ombra il fatto che si tratta, pur sempre, di un’opera appartenente al genere fantascientifico.

Ora, se è vero che uno dei pregi della speculative fiction è quello di saper “parlare” ai lettori contemporanei di loro stessi e delle loro “costruzioni sociali”, allora, nella lettura de L’uomo invisibile, si farebbe bene a concentrare maggiormente l’attenzione più che sugli aspetti umoristici, su quelli inquietanti e dark che esso “disvela”.


In poche parole e per punti (questa è pur sempre solo una “nota”), si vuole portare l’attenzione sul fatto che Wells pone alla base del suo romanzo il fatto che la nostra è una società basata e costruita sull’essere visti.

  • I componenti di tale società (ossia noi stessi al pari dei lettori del 1897, data di uscita del romanzo), si comportano da esseri “civili” quando si trovano “in pubblico” e sono, quindi, consapevoli di essere visti (e giudicati) dagli altri; mentre diventano pressoché dei “cavernicoli” quando ritengono di essere “in privato” e non visti dai propri simili.
  • È la condizione di essere-visibile-dagli-altri e, dunque, pur sempre delle “prede” facilmente “cacciabili” e “punibili” che rende “mansueti” e socievoli; mentre l’invisibilità (vera o solo presunta) porta con sé un senso di potenza e invincibilità (nel romanzo si parla di «mistero, potere e libertà») che mal si concilia con l’essere un appartenente a un gruppo sociale regolamentato.
    • E non è un caso, allora, che il protagonista, prima di avere un nome che lo identifichi - ossia Griffin, come si apprende solo nel 17° capitolo -, è indicato dall’Autore con l’appellativo di «stranger», «straniero», che, in italiano, si può anche tradurre con «estraneo».
  • La totale invisibilità, quindi, porta alla totale “disumanità” e alla “sociopatia”, perché si ha la quasi certezza di restare impuniti in quanto non “cacciabili” dagli altri.
    • E, a tal proposito, vanno “rivalutati” (nel senso di valutati in altro modo) i titoli di alcuni dei capitoli finali del romanzo, quali “La caccia all’uomo invisibile” e “Cacciatore cacciato”: c’è in essi un intenzionale riferimento al mondo ferino che rimanda inevitabilmente, per quanto fin qui detto, a una società tribale e “involuta”.
  • Da morto, per l’uomo invisibile «ebbe inizio quella strana reincarnazione nel visibile» (nella libera, ma calzante, traduzione italiana di Stefano Sudrié dell’originale «that strange change continued»). 
    • E, da “visibile”, Griffin smette di essere uno «straniero» e ridiventa un “simile”. Lo si deduce dalla richiesta fatta da un uomo di coprirgli il viso (richiesta sì pietosa, ma anche atta a nascondere ciò che di ancora “inumano” - nel senso di non-civilizzato - resta nel cadavere: ossia «un’espressione ormai indelebile di rabbia e terrore»). 
  • Vestiti e visibili si è “umani”. Invisibili e nudi, “disumani”.
    • Per raggiungere la completa invisibilità Griffin deve denudarsi completamente. Quando - nel grande magazzino - può finalmente rivestirsi, commenta «I began to feel a human being again» (ossia, «Ho cominciato a sentirmi di nuovo un essere umano»). La nudità - per come vista all’epoca della prima edizione del romanzo - è una condizione tipica dell’uomo non civilizzato e, quindi, in qualche maniera belluina. E, sia detto per inciso, nudi si può restare solo se non visti…

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