“L’essercitio mio è di pittore” | Processo a Caravaggio


Nella collana “I grandi processi della Storia” del Corriere della Sera è apparso, un po’ a sorpresa, un volume a firma di Andrea Dusio dal titolo Caravaggio. Rivalità artistiche e diffamazione.


Lungi dall’essere un procedimento giudiziario epocale, quello raccontato da Dusio nel suo saggio fu un processo per diffamazione intentato nel 1603 dal pittore Giovanni Baglione contro il Caravaggio, Onorio Longhi, Orazio Gentileschi e il giovanissimo Filippo Trisegni.

In ballo c’era l’onore del Baglione che, in alcuni versi da lui attribuiti al Caravaggio, al Longhi e al Gentileschi, veniva accusato di non essere un bravo pittore e di avere un rapporto poco chiaro con il pittore Tommaso Salini, detto Mao.


La rivalità tra il Baglione e i pittori da lui accusati di diffamazione datava da qualche tempo prima e nasceva da questioni squisitamente artistiche-commerciali, riferite con puntualità da Dusio nel volume.


Le carte del procedimento resterebbero d’interesse di pochi specialisti se in esse non comparissero due “questioni” su cui vale la pena soffermarsi, anche solo brevemente.


La prima è quella che potrebbe essere definita l’unica dichiarazione di estetica del Caravaggio.

Interrogato in merito alla sua professione e al valore dei suoi colleghi, Caravaggio esordisce con l’affermare «L’essercitio mio è di pittore» e prosegue con lo spiegare che «Quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi dipingere bene et imitare bene le cose naturali.».

Una dichiarazione, quella di considerare bravi pittori coloro che imitavano la natura che suona rivoluzionaria se la si contestualizza: erano, quelli vissuti da Caravaggio, gli anni in cui a contare era la pittura accademica che puntava sull’imitazione della maniera dei grandi pittori (soprattutto di Leonardo, Michelangelo e Raffaello), piuttosto che sulla pittura dal vero. 


La seconda questione è relativa all'accusa, fatta cadere come per caso,  rivolta a Caravaggio e Longhi di frequentare un bardassa, ossia un giovane maschio dedito alla prostituzione.

Dusio, nel suo testo, propende a dare al termine “bardassa” il significato generico di ragazzo, spiegando che di fronte a un’accusa di sodomia, per quanto velata, il giudice non avrebbe potuto far finta di nulla.


Una spiegazione quella di Dusio - se ci è consentito - che non fuga il dubbio che quel “bardassa” valesse, invece, proprio come sinonimo di marchettaro, soprattutto in un processo intentato dal querelante, non solo perché nei versi diffamatori di lui si dice essere pittore di scarso valore, ma anche perché nei medesimi versi si getta un sospetto sulla reale natura della relazione che intercorre tra lui e il Mao.

Una relazione tanto intensa da far dichiarare al Caravaggio che il Salini era soprannominato “l’angelo custode” del Baglione.

Un modo, quello di accusare, anche solo velatamente, i querelati di sodomia, per ribaltare le accuse e per screditarli di fronte all’opinione pubblica e ai committenti ecclesiastici. 


Per quanto attiene al “bardassa”, va ricordato che Caravaggio tiene a specificare di non conoscere «nessun giovane che se chiami Giovanni Battista et in particolare che stia dietro ai Banchi e che sia giovane.».

Una dichiarazione che suona poco veritiera, soprattutto per il ripetersi della parola “giovane”.

Sembra quasi che Caravaggio avesse, invece, ben chiaro chi fosse quel Giovanni Battista e che lavoro facesse e, per tale motivo, si affrettasse a negare risolutamente di conoscerlo per evitare proprio di essere accusato di sodomia.

Accusa che, forse, non sarebbe stato in grado di confutare.


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