L'arte del videogioco


Strepitoso. Tale è l'unico aggettivo che viene alla mente per definire Lolita di Nabokov per la regia di Luca Ronconi

Ronconi, uno dei registi, giustamente, più osannati dalla critica europea, se non mondiale, con il suo ultimo lavoro ha dato nuova linfa al teatro, creando uno spettacolo davvero multimediale, nel quale la multimedialità non è una sorta di "convitato di pietra" alla tavola del cavaliere, ma una vera necessità, parte integrante dello spettacolo. 
Se non si avesse paura di essere completamente fraintesi, si oserebbe affermare che Ronconi, con Lolita, ha creato un enorme videogioco, uno di quelli dell'ultima generazione, nei quali il giocatore interagisce con il programma pre-impostato e crea e vive una storia nuova. 
Ronconi ha, infatti, creato (con la scenografa Margherita Palli) una meravigliosa macchina scenica assolutamente duttile alle esigenze del regista-narratore: gli oggetti (come sempre negli spettacoli ronconiani) entrano in scena solo quando sono necessari, per uscirne quando non servono più. 
Ma, ripeto, se ciò è tipico di Ronconi, con Lolita, ci pare sia andato più oltre: ha visualizzato su maxischermi i pensieri dei personaggi, gli esterni paesaggistici, brani di lettere, sentimenti. 
Inoltre, tali schermi-sipari, si aprono alla bisogna e "materializzano" in scena scale, pontili o altro, poco prima soltanto visualizzati. 
In poche parole, Ronconi, in Lolita, passa, in pochi istanti, dalla bidimensionalità delle immagini alla tridimensionalità degli oggetti e da questa, di nuovo, alla bidimensionalità, come fosse in una realtà virtuale (o, meglio, come se passasse, di volta in volta, da un racconto di tipo cinematografico a uno di tipo teatrale). 

Non è un caso, allora, che a lato del palcoscenico, fin dall'inizio, è presente un "tavolo di regia": il "creatore" dello spettacolo è sempre "in scena", perché è lui che "fa" il gioco. 
Neppure è un caso, allora, che Ronconi scelga di essere fisicamente presente in palcoscenico e narri al pubblico come abbia deciso di tagliare delle parti di spettacolo.


Questo Lolita dura molto, 4 ore, ma è uno spettacolo che prende, che lascia giocare anche il pubblico. 
Forse risulta un po' faticoso sul finale, ma non è né colpa di Ronconi, né dei suoi attori: è la vicenda narrata da Nabokov che irrimediabilmente, cresciuta Lolita, perde di interesse. 

Ma lo spettacolo non sarebbe quello che è se, in scena, oltre al meccanismo, non ci fossero anche gli attori. 
Il protagonista maschile era un Franco Branciaroli in piena forma, maturo e attento ai tempi (sbagliarne uno pregiudicherebbe l'intero meccanismo scenico). 
Al suo fianco, nel ruolo di Lolita, c'è Elif Mangold che recita (benino) il proprio ruolo in inglese. 
Le di lei battute vengono, in diretta, doppiate da Galatea Ranzi che la sostituirà nel finale, impersonando Lolita adulta ed incinta. 
Molto probabilmente, Ronconi ha voluto una Lolita bambina che recitasse in inglese perché in tal modo fosse più chiaro il divario linguistico (il gap generazionale) che esiste tra il mondo adulto e quello semi-infantile di Lolita. La Ranzi, infatti, "traduce" solo le battute più "adulte" (perché cariche di sottintesi erotici) pronunciate da Lolita, lasciando, appunto, in inglese quelle attinenti alla sfera infantile della bambina. 
Nel ruolo di Charlotte, la madre di Lolita, un'irresistibile Laura Marinoni; in quello di Quilty un altrettanto trascinante Massimo Popolizio; il narratore Nabokov era Giovanni Crippa e lo psicologo Antonio Zanoletti (un po' troppo caricaturale).


Uno spettacolo da non perdere.
 Al Teatro Giorgio Strehler di Milano fino al 4 marzo.
 
In «Il Nuovo Giornale di Bergamo», 26 gennaio 2001.

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