Quando in Einaudi lavoravano i giganti

I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero (Torino 1938) è un libro strepitoso. In esso l’autore racconta i suoi anni di lavoro all’interno della casa editrice Einaudi, nella quale è entrato come responsabile dell’Ufficio Stampa nel 1963 e ne è diventato direttore editoriale tra il 1984 e il 1989 (gli anni della superamento della crisi economica che aveva colpito la casa editrice). 
Ferrero, quindi, ha della casa editrice, una conoscenza profonda e ne descrive dall’interno vizi e virtù, ricorrendo anche (soprattutto nei casi in cui non è stato testimone diretto degli avvenimenti) ai verbali e alla corrispondenza conservata in archivio, per portare un pizzico di verità in più ai suoi ricordi. 
Sono anni, quelli descritti nel libro di Ferrero, nei quali in Einaudi lavorano dei veri e propri giganti della cultura italiana: tra essi Cesare Pavese, Elio Vittorini, Giulio Bollati («il Maestro»), Natalia Ginzburg, Italo Calvino e, naturalmente, lui, Giulio Einaudi, «l’Editore» (nel libro la parola editore è sempre scritta in maiuscolo, così come si fa con titoli regali e imperiali e non è del tutto un caso, forse, che Einaudi assomigli al condottiero-imperatore Napoleone).
Di loro Ferrero disegna un ritratto-ricordo pieno di nostalgia (i tempi sono profondamente mutati), ma una nostalgia venata da sapiente ironia (anzi, si potrebbe quasi dire che l’ironia è una specie di scudo con la quale Ferrero affronta il ricordo). 
Non manca, mai, comunque, un fondo spesso d’affetto: Ferrero ha amato le persone con cui ha lavorato, ne ha avuto rispetto e ora le ricorda come se fossero persone della sua famiglia. 
Forse non è del tutto campato in aria affermare che I migliori anni della nostra vita è un Lessico famigliare d’inizio millennio. 
Per dare un’idea sommaria dei ritratti tracciati da Ferrero se ne citano solo alcuni. Ad esempio, di Natalia Ginzburg Ferrero dice che in Einaudi ella «rappresenta («insieme mistico e carnale, guru distaccato e leader politico, sacerdote buddista e commissario delle brigate internazionali»), la parte della zia che tutto vede e capisce senza mai alzare gli occhi dal cestino di lavoro» (p. 70), o, anche che «intenta a leggere manoscritti ordinatamente impilati di narratori italiani, aveva l’aria di una governante inglese, severa ma giusta e financo soccorrevole» (p. 39). Di Italo Calvino ricorda la sua tattica consistente nel tenere un profilo basso, come di chi non conta, e il suo essere un tipo taciturno. Ricorda anche, tra l’altro, la sua sapienza nel redigere i risvolti di copertina (una vera e propria arte nella quale Calvino pareva essere un maestro insuperabile). Di Giorgio Manganelli descrive come cercasse «di spacciare certi classici minori delle letterature antiche, come il De Divinatione, con la stessa complicità un po’ losca con cui un libraio ti mostra sottobanco un capolavoro erotico del Settecento, particolarmente raro e pruriginoso, facendoti capire che stai facendo l’affare della tua vita» (p. 99). 
Ma tutti i giganti descritti nel libro cosa speravano dal loro – a volte – anonimo lavoro in Einaudi? Come degli «sciamani laici» la loro missione era di cambiare il mondo usando come strumento i libri. Un obiettivo forse utopico (ma forse no) che, però, varrebbe proprio la pena che anche oggi fosse perseguito più spesso e con maggior vigore.

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